Valerio M. Manfredi, l’Italia deve ripartire dalla cultura

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Valerio Massimo Manfredi

Passato,presente e futuro. Pare strano ritrovarsi in una fredda sera d'inverno, quando il pensiero della lavorativa dell'indomani incombe e la temperatura non esattamente piacevole infastidisce non poco.

Ma alla libreria Mondadori c'è un ospite speciale: giacca di pelle sportiva,capelli grigi ma accuratamente pettinati,un sorriso cordiale in stile emiliano, Valerio Massimo Manfredi non si fa pregare e, dopo essersi accomodato al piano di sopra, inizia a firmare copie su copie del suo ultimo romanzo Il mio nome è Nessuno, primo di due libri dedicati alla figura di Ulisse.

Valerio Massimo Manfredi è autore di romanzi ormai da più di un ventennio, particolarmente affezionato alla storia romana e greca, essendo laureato in Lettere Classiche e specializzato in Topografia. La sua conoscenza di storico è stata inoltre determinante nella conduzione del programma “Impero” su La7, con reportage su particolari eventi che hanno caratterizzato la storia antica e moderna. Tra i suoi romanzi, L'armata perduta, Il tiranno, L'ultima legione e Le Idi di marzo.

Dal suo primo romanzo, scritto più di vent'anni fa, cosa è cambiato stilisticamente e contenutisticamente nei suoi romanzi? “Dipende sempre dalle storie che voglio raccontare. Prima di quest'ultimo libro c'è stato “Otel Bruni”, una storia ambientata nel primo Novecento, mentre “L'oracolo” è collocato negli anni Settanta, nella Grecia dei Colonnelli. E' chiaro che se io racconto “Il mio nome è Nessuno”, con la narrazione affidata a un re miceneo dell'età del Bronzo, studio un'apposita prosa, fatta più di coordinate che di periodi dipendenti, con pochi concetti astratti, quasi tutti sotto concetti concreti, o anche con frasi e periodi corti, addirittura cortissimi spesso e volentieri. Con il passare degli anni si affinano gli strumenti, senza chiaramente perdere freschezza e forza, ma io mi affido molto all'istinto. Espressivamente è ovvio che si cerchi ogni volta di essere piu incisivi, decisi, fluidi, efficaci ed originali. Credo infine che sia anche una questione di talento, cosa non riservata a tutti”.

Tra gli anni Settanta e Ottanta lei ha partecipato alla spedizione “Anabasi” sulle tracce della leggendaria armata dei “Diecimila”, i mercenari greci famosi per la loro memorabile marcia dalla Persia in Grecia. Questa vicenda storica può riservarci ancora sorprese? “Diciamo che posso ritenere una grande sorpresa il ritrovamento, insieme a un collega britannico nel 2005, del “trofeo dei Diecimila”. Colpi di scena più grandi non penso si possano avere, perché una marcia non lascia impronte. Dopo ventiquattro secoli poi… Non è come un insediamento purtroppo, ma ringrazio me stesso per essere arrivato fin qui”.

“Otel Bruni” rompe sicuramente il tradizionale schema contenutistico dei suoi romanzi. Dimostra peculiarità di una certa rilevanza, oltre a spostare l'attenzione dalla solita ambientazione romana o greca. Da cosa è nato? “Mio figlio stava facendo la tesi di laurea in Storia Contemporanea sul caso Montanari, che era medico condotto del mio paese (nel romanzo il cognome è stato cambiato con Munari) assassinato il 19 maggio del 1946. Il caso è tutt'ora irrisolto, fu accusato al tempo lo zio di mia , Armando Bruni. O, più giustamente, si accusò da solo, firmando in realtà un verbale già stilato dai carabinieri. Lui indicò come mandanti i vertici dle partito comunista locale che furono imprigionati e condannati a 15 anni. Mio figlio nella tesi è riuscito a scagionare Armando e a quel punto mi sembrò che fosse venuto il momento di raccontare la storia della famiglia Bruni, anche in memoria della mia nonna materna”.

Nel romanzo “L'impero dei draghi” approfondisce la teoria secondo la quale una legione sbandata durante la battaglia di Carre nel 53 a.C combattuta da Crasso contro i Parti, avesse perso l'orientamento e fosse arrivata in Cina. Oggi, sulla base di tutti gli indizi a sostegno di questa teoria lei direbbe con sicurezza che la civiltà latina è entrata in contatto con quella cinese? “Assolutamente no. Ci vuole ben altro per provare una cosa di queste dimensioni. Diciamo che quando Homer Dubs, un sinologo britannico, negli anni Cinquanta trovò questo passo nel libro degli Han in cui un maresciallo dell'esercito cinese mandato a mettere in sicurezza la via della Seta si scontrò con un gruppo di soldati che combatteva con gli scudi sulla testa, scoprì anche che in quella zona era stata fondata una città chiamata Li Chang,un termine che si riferiva a “capitale dell'Occidente”. Così lui ha pensato seriamenti che quei combattenti fossero soldati Romani e ha cercato di individuarli nei prigionieri dell'esercito di Crasso tenuti in Estremo Oriente dai Persiani. Un'ipotesi certamente affascinante e non cervellotica, però gli scavi personalmente non persuadono. Non bastano a dire con certezza che là siano arrivati i Romani. Non nego che sarebbe bello pensare una cosa del genere, ma questo va bene solo in un romanzo”.

In un'Italia che ha investito negli ultimi anni troppo poco nella cultura, non favorendo per i giovani l'accesso a tutti quei settori che in un Paese come il nostro dovrebbero prosperare, si sente di dare strategie di reazione a questi problemi? “Da un punto di vista economico, l'investimento culturale non ha un ritorno immediato, perché generalmente sono investimenti a medio-lungo periodo, ma sono fondamentali. Il Washington Post recentemente ha scritto che la generazione di oggi è quella di bisonti quadrati, formati in corsi di laurea tecnologici e scientifici a svantaggio delle lauree umanistiche e questo è assolutamente inquietante. Certo è, che nel Rinascimento la cultura era coltivata veramente tanto, senza l'aiuto dello Stato. In ogni caso,  bisogna continuare a spendere per questo settore, perché ci qualifica sotto tutti i punti di vista e rende  migliore la situazione di un Paese che da qui deve ripartire”.

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