Peppino Impastato, cento passi verso l’eternità
PALERMO. La storia di Peppino Impastato è una storia di impegno politico, di coscienza civile e di possibilità di cambiamento. Risuonava negli anni Settanta dai microfoni di una radio libera autofinanziata, Radio Aut, e risuona oggi a distanza di quasi 40 anni da Radio 100 Passi, una web radio le cui trasmissioni sono messe in onda direttamente dalla Casa Memoria Peppino Impastato a Cinisi. Allora come ora, la satira era l'unica arma di controinformazione nei confronti della mafia e degli esponenti della politica locale. Ma chi era Peppino Impastato e, soprattutto, perché il destino ha scritto per lui una fine così crudele? Apparteneva a una famiglia dalle importanti aderenze mafiose a Cinisi, ma ancora giovanissimo scelse di reagire a un destino già scritto.
“Arrivai alla politica nel lontano novembre del '65 su basi puramente emozionali: a partire cioè da una mia esigenza di reagire ad una condizione familiare ormai divenuta insostenibile -scrisse di sé Peppino Impastato. Mio padre, capo del piccolo clan e membro di un clan più vasto, con connotati ideologici tipici di una civiltà tardo-contadina e preindustriale, aveva concentrato tutti i suoi sforzi, sin dalla mia nascita, nel tentativo di impormi le sue scelte e il suo codice comportamentale. E' riuscito soltanto a tagliarmi ogni canale di comunicazione affettiva e a compromettere definitivamente ogni possibilità di espansione lineare della mia soggettività”.
Persino alla mente più elastica può risultare difficile immaginare cosa poteva significare nella Sicilia degli anni '60 e '70 (gli anni della rivoluzione giovanile, della disobbedienza, delle lotte civili ed operaie vissute quasi in surplace da un'isola aggrappata tenacemente al suo gattopardiano immobilismo) crescere in un piccolo paese come Cinisi e avere una famiglia ingombrante come quella di Peppino, il cui padre Luigi era stato inviato al confino durante il periodo fascista, con uno zio ed altri parenti mafiosi, mentre un cognato era il capomafia Cesare Manzella.
E' faticoso in quegli anni essere Peppino Impastato, giovane idealista in lotta con se stesso e con il sistema, che sceglie di intraprendere la via della militanza comunista. Tanto difficile, che il 9 maggio 1978 la sua vita arriva al capolinea sui binari della linea ferrata Palermo-Trapani. Devastato da 5 chili di tritolo che fanno di lui polvere. Qualcuno pensa inizialmente a un attentato terroristico dello stesso Impastato o, peggio, a un suicidio.
In realtà, fu una vera e propria esecuzione. Si dovrà aspettare il maggio del '92 perché il Tribunale di Palermo decida l'archiviazione del caso Impastato, ribadendo la matrice mafiosa del delitto ma escludendo la possibilità di individuare i colpevoli e ipotizzando la possibile responsabilità dei mafiosi di Cinisi, alleati dei corleonesi.
Della morte di Impastato però, il 9 maggio 1978 nessuno se ne occupa in maniera importante. Quello stesso giorno l'Italia si risveglia bruscamente da un altro incubo, il sequestro Moro. Dopo una prigionia di 55 giorni, infatti, il corpo del segretario della DC è ritrovato nel baule posteriore di una Renault 4 parcheggiata in via Caetani a Roma. Sono gli anni di piombo, la gelida ferocia del terrorismo aveva già calato una grigia coltre sulla Repubblica italiana.
Tuttavia, il 9 maggio del 1979, a un anno esatto dalla morte di Peppino Impastato, il Centro Siciliano di Documentazione organizza con Democrazia Proletaria la prima manifestazione nazionale contro la mafia della storia d'Italia alla quale parteciparono 2 mila persone provenienti da tutto il Paese.
Nel giugno del 1996, in seguito alle dichiarazioni del pentito eccellente Salvatore Palazzolo, che indica in Badalamenti il mandante dell'omicidio insieme al suo vice Vito Palazzolo, l'inchiesta è formalmente riaperta. Nel novembre del 1997 è emesso un ordine di cattura per Badalamenti, incriminato come mandante del delitto. Il 5 marzo 2001 la Corte d'Assise riconosce Vito Palazzolo colpevole e lo condanna a 30 anni di reclusione. L'11 aprile 2002 Tano Badalamenti è condannato all'ergastolo. Muore nel 2004 a 80 anni.
La fine di Peppino Impastato, morto a 30 anni il 9 maggio del 1978, 5 giorni prima della sua elezione a consigliere comunale di Cinisi nelle liste di Democrazia proletaria, impresse una decisa sterzata al corso della vita di chi gli sopravvisse. Di sua madre Felicia Bartolotta e di suo fratello Giovanni, come di sua cognata Felicetta. Che diventarono i custodi della sua memoria e insieme con Salvo Vitale e Umberto Santino, il fondatore del Centro di Documentazione antimafia, gli implacabili cacciatori di una verità evidente che in pochi intendevano riconoscere. Gli accusatori dei notissimi ignoti. Badalamenti, in primo luogo, il cui nome era stato indicato già dal palco nel primo comizio, tenuto due giorni dopo la scoperta del cadavere.
Ci sono voluti 23 anni perché Impastato diventasse con bollo di giustizia un morto di mafia. E quell'omicidio un delitto contro la parola. L'assassinio di un giornalista postumo. Fu iscritto all'Albo professionale solo quando nel 1997 Badalamenti fu incriminato.
Parlava Peppino. Parlava tanto in una Cinisi muta, sorda e cieca. Parlava dai palchi improvvisati sui quali rappresentava il proprio impegno. Si faceva ascoltare dai microfoni di Radio Aut. Grazie a Salvo Vitale e Guido Orlando è possibile riascoltare la sua voce nelle otto trasmissioni riprodotte nel dvd Onda Pazza.
Mostrava cosa stavano facendo del suo paese, con l'aeroporto in ampliamento, l'America dei cugini d'oltreoceano sempre più vicina, la droga a fiumi e la speculazione dei signori del cemento alle porte. Faceva nomi e cognomi. Di mafiosi e di politici. Che andavano a braccetto e si facevano fotografare insieme.
L'11 aprile 2002 Tano Badalamenti fu condannato all'ergastolo per quel delitto, ma il 30 aprile 2004, a 80 anni, morì nel centro medico penitenziario Devens Fmc, ad Ayer (Massachusetts) mentre scontava 45 anni per un colossale traffico di droga sulla rotta aerea Usa-Sicilia. Il 5 marzo 2001 Vito Palazzolo, braccio destro di Badalamenti, anche lui amico degli Impastato, aveva rimediato una pena di 30 anni. Felicia Bartolotta lo incrociò il primo giorno del primo processo. Lo guardò dritto negli occhi e lo costrinse ad abbassare lo sguardo. Gli sibilò con rabbia: “Vergognati”.
Il 18 novembre del 1994 il collaboratore di giustizia Salvatore Palazzolo aveva messo a verbale: “Secondo quanto ho appreso dal vice rappresentante della nostra famiglia Vito Palazzolo, l´omicidio è stato voluto da Gaetano Badalamenti ed eseguito da Francesco Di Trapani e Nino Badalamenti (entrambi morti, ndr)”.
Tano Badalamenti decise il delitto, onorando a suo modo un patto con Luigi Impastato, il padre di Peppino. Ordinò di liquidarlo solo quando Luigi, di ritorno da un viaggio in Usa, morì in un misterioso incidente stradale sul quale, manco a dirlo, non si indagò. Era andato negli Usa a perorare l´intercessione di qualche mammasantissima per avere salva la vita del figlio.
Dopo due archiviazioni (nel 1984 e nel 1992), nell'aprile del 1995 l'indagine fu riaperta. La famiglia si costituì parte civile con l´avvocato Vincenzo Gervasi. Palazzolo fu il primo ad essere condannato.
Felicia Bartolotta aveva 85 anni. “Ora -disse- tutti sanno qual è la verità. Aspetto la condanna di Badalamenti e poi posso anche morire”. Morì il 10 dicembre 2004 a 88 anni. Ripeteva: “Anche gli insetti se lo sono mangiati mio figlio. Che ci vado a fare al cimitero? Lì non c'è. Solo un sacchetto, questo mi hanno lasciato”.