#Cultura. Tempo e cinema, connubio magico e indissolubile
Quanti hanno sognato di tornare indietro nel tempo per cambiare gli eventi della propria vita o per conoscere un grande artista o un'illustre scienziato o magari per ripercorrere i fasti di antiche civiltà? È desiderio recondito di molti infrangere le imprescindibili leggi che la vita ci ha dato, la sua incontrovertibile unidirezionalità. Il tempo è inafferrabile e incontrollabile, ma tutto è possibile invece nel cinema. Il cinema è l'arte dell'immagine in movimento. Esso è capace di presentarci una porzione di realtà, il più delle volte ricreata o frutto della soggettività del regista, nel suo dispiegarsi continuo dell'esistenza, imprimendola e salvaguardandola su pellicola o su un supporto digitale.
Il cinema riesce dunque a incanalare il tempo che scorre, ma anche a plasmarlo, a modificarlo e a riprodurlo a proprio piacimento. Questa magia è realizzabile grazie al montaggio: quel determinato processo che consente di disporre le inquadrature, ossia quei frammenti di realtà ricreata, in un ordine narrativo che è del tutto arbitrario alla creatività del progettatore. Facciamo un esempio: un primo piano di un ragazzo ci fa capire che il suo sguardo è attratto da qualcosa. Un controcampo sullo sguardo di una ragazza ci informa che è l'oggetto d'interesse del ragazzo. La macchina da presa ritorna ad inquadrare il ragazzo che ora sembra turbato. Un flashback ci svela che la ragazza era una vecchia fiamma che ha fatto palpitare il suo cuore.
In questa piccola scena di invenzione, seppur semplice nella sua struttura, abbiamo l'esempio della potenza manipolatrice del mezzo cinematografico. Nessuna altra arte è cosi capace di direzionare l'attenzione dello spettatore su così tanti punti di prospettiva slegati non solo spazialmente, ma anche temporalmente. Nei primissimi film muti non esisteva l'arte del montaggio; le inquadrature, come per esempio in Viaggio sulla Luna (1901) di Georges Méliès, erano caratterizzate da una camera fissa che si limitava a registrare ciò che succedeva nello spazio scenico predisposto, somigliando quindi a dei quadri filmici.
Successivamente, intorno agli anni venti, in un clima di fervente sperimentazione da parte di cineasti di diverse nazionalità è codificato dal regista David Wark Griffith il montaggio classico, fondamentale per dispiegare la narrazione in maniera il più invisibile, trasparente e chiara possibile. Il cinema è riuscito quindi a farci “vedere la durata stessa” come affermò il critico Andrè Bazin. E questa durata non sottostà ai dettami naturali dell'esistenza di tutti i giorni, ma sfruttando le capacità proprie del cinema ama frammentarsi, dilatarsi, accorciarsi fino ad annullarsi, quando le luci si spengono e la magia finisce.