Caminiti, Galmozzi, Mantelli: “Ucraina, qui si fa l’Europa o niente”
L'invasione dell'Ucraina è il tentativo russo di chiudere militarmente sotto il tallone di ferro quel processo politico iniziato con la caduta del muro di Berlino e il progressivo riavvicinamento dell'est verso l'ovest, dopo la lunga “cesura” del secondo Novecento; iniziava così la ricostituzione dell'Europa, storicamente articolata in molteplici aree, mai brutalmente separata in Est e Ovest se non dopo il 1945-48. La “soluzione” di questa guerra sarà perciò la forma politica dell'Europa: una vittoria russa congelerebbe di fatto, anche solo per una minaccia incombente magari solo supposta, che diventerebbe (e in parte è già diventata) “la” questione nazionale di diversi paesi lungo la vecchia cortina di ferro, ogni ipotesi di una Europa più larga e più integrata.
Al momento, qualunque discorso sulla pace – anche declinata in “giusta” – e sulla trattativa diplomatica non è altro che la cornice linguistica per la concessione di territori, e l'OPA russa sulle scelte sovrane ucraine, quindi l'implicito riconoscimento delle ragioni di Putin, delle ragioni dell'aggressione e di una “postura” minacciosa nel futuro. Non c'è alcuna “contropartita” né militare (un rafforzamento della NATO in Europa e degli apparati militari nazionali) né economica (un enorme flusso finanziario per la ricostruzione di quel che rimane dell'Ucraina distrutta) a quella che diventerebbe davvero la “controstoria politica” del 1989 e di quelle speranze. E la riduzione dell'Europa a una mera espressione geografica, con una frattura interna dolorosa, e a un suo rinculo nazionalistico. In questo modo si riconcretizza, oltre un secolo e mezzo dopo le previsioni marxiane espresse nei testi del “Marx contro la Russia”, l'idea di una Russia in grado di schiacciare ogni volontà di emancipazione in Europa.
I destini dell'Europa, perciò, si giocano in Ucraina. Così, non è casuale né bizzarro che chi non ha mai creduto a un processo di costruzione e rifondazione europea e di una sua possibile declinazione come una enorme area senza guerre, dove possano progressivamente irrobustirsi diritti e garanzie di lavoratori e cittadini, chi, insomma, ha fatto di un credo nazionalista, di chiusura delle frontiere, di “differenze” tra cittadini la propria linea di propaganda e di politica, proprio come chi all'opposto si fa portavoce di un mondo ecumenico degli ultimi dove c'è “ben altro” che l'Ucraina, si sia schierato, in una destra come in una sinistra radicale, sempre più apertamente contro l'Ucraina. L'Ucraina è un “pretesto”, proprio come lo è per Putin – il bersaglio grosso è l'Europa. L'Europa possibile. La guerra mossa dalla Russia all'Ucraina ha perciò funzionato come catalizzatore di tutte le posizioni e le pulsioni ostili all'Europa reale e possibile, agendo come cemento del fronte “rossobruno”.
La permeabilità che queste “argomentazioni” hanno dipende tutta dalla fragilità dell'Unione europea. Un'Europa già forte, già “sentimento” sociale, non avrebbe preso nella minima considerazione tutti coloro che dal 24 febbraio 2022 predicano una pace che è nei fatti sinonimo di resa. Così non è stato. E la debolezza di una argomentazione, tutta ideologica e retorica ma spesso usata dai filoucraini, dello scontro tra autoritarismo e democrazia, sta qui. Sta accadendo invece che l'Ucraina, prima colpevole di avere resistito all'aggressione, ora è diventata doppiamente colpevole per la sua “controffensiva che non sfonda”; la locuzione battente per ora è: “la situazione è in stallo” – e quindi bisogna andare in fretta a una “pace giusta”, ovvero alla cessione di territori. Questo Leitmotiv viene cantato da destra e da sinistra, in spregio a qualunque considerazione ragionevole di carattere militare, che invece suggerisce come la controffensiva ucraina non si debba misurare in chilometri riconquistati, ma nella sua capacità prima di imporre alla Russia il passaggio ad una rigida postura difensiva (terrorismo aereo escluso), e poi nel possibile taglio dei legami tra Crimea e altri territori russi. Bisogna liquidare il prima possibile la “questione ucraina” – indifferenza, fastidio e insofferenza sono i sentimenti largamente prevalenti oggi sull'Ucraina. Questi si accompagnano a una “urgenza” di settori del capitale di intervenire nei flussi finanziari della ricostruzione e di riprendere gli scambi commerciali con la Russia – dato che, come va ripetendo da tempo un'altra locuzione battente, le “sanzioni non funzionano” e quindi toglierle farà parte della “pace giusta”, con annessa ripresa dei flussi di metano, alla faccia della svolta “green”.
I governi europei, a cominciare dalla Germania, sono rimasti sorpresi e spiazzati dall'invasione: il gas russo affluiva e quindi tutto sembrava scorrere normalmente secondo i “canoni” di quell'Ostpolitik che per decenni aveva improntato i rapporti commerciali e diplomatici, con reciproco vantaggio; Ostpolitik tedesca che aveva la sua più che ragionevole ragion d'essere finché di fronte aveva l'URSS, il cui gruppo dirigente era interessato al mantenimento dello status quo, ma che sarebbe divenuta causa di cecità di fronte ad una Federazione Russa il cui gruppo dirigente, qui e adesso, è animato da pulsioni ad un tempo neozariste e neostaliniste in salsa nazionalortodossa. Gli allarmi delle agenzie americane sull'ammassamento di truppe russe ai confini sono stati ignorati perché nessuno voleva e poteva credere a un'invasione – nessuno era “preparato” a un evento simile, neanche per l'anticamera del cervello. In più, l'Europa era stata colpita duramente dal Covid e faticosamente aveva varato per la prima volta la decisione della messa in comune dei debiti e l'allentamento di quel regime di austerità ormai insostenibile. Era, cioè, dal punto di vista politico il momento di maggiore incertezza, di navigazione in acque scognite. Se l'iniziale blitz di Putin avesse funzionato, con lo sfondamento da nord verso Kiev e la presa dell'aeroporto di Hostomel (l'aeroporto di Kiev), la fuga di Zelenskij e del governo, l'instaurazione di un regime obbediente a Mosca – è probabile che non ci sarebbe stato niente più di vibrate proteste e di un controverso piano di accoglienza di profughi: l'Ucraina sarebbe diventata un'altra Bielorussia. I governi europei – e tutto testimonia per dirlo anche del governo americano, le cui preoccupazioni geopolitiche erano rivolte soprattutto verso la Cina, come quelle “interne” dallo shock e dagli strascichi dell'eversione del 6 gennaio 2021 a Capitol Hill, oltre che dal raffazzonato ritiro dall'Afghanistan, lasciato in mano ai talebani, ritiro non a caso avvenuto circa sei mesi prima dell'attacco russo all'Ucraina, e sei mesi sono il tempo necessario all'organizzazione logistica di un piano offensivo militare – sono rimasti sorpresi e spiazzati dalla resistenza ucraina: il “fattore imponderabile” di questa guerra. E Volodymyr Zelenskij si è trasformato nel simbolo reale della resistenza all'aggressione.
È solo dopo la resistenza improvvisa e improvvisata dell'Ucraina che Stati uniti, Gran Bretagna e Europa hanno deciso il sostegno finanziario e militare – dichiarando però subito due cose: che non ci sarebbe stato mai un loro scarpone sul campo e che non si sarebbe mai colpito il territorio russo innescando una spirale da guerra totale e nucleare, l'escalation da evitare a tutti i costi insomma. La decisione più evidente fu immediata – non instaurare una “no fly zone”, come chiedevano gli ucraini, e come quella a suo tempo instaurata sulle aree curde dell'Iraq, senza che però si intimasse a Mosca di non colpire l'entroterra ucraino. Un sostegno, cioè, che ha rischiato di “congelare” fin da subito il conflitto in una guerra di posizione e di logoramento. Un sostegno “controvoglia”: nonostante le prime dichiarazioni infuocate di Biden dopo gli orrori di Bucha – Putin macellaio, la necessità di un regime change – gli Stati uniti si sono acconciati a una lunga durata, distillando gli aiuti militari che peraltro richiedono tempi di addestramento, contando relativamente sulla “controffensiva” che gli ucraini assicuravano avrebbe liberato i territori invasi, e puntando su una “politicizzazione” e “economicizzazione” mondiale della guerra (coinvolgere il mondo, a partire dall'ONU, e moltiplicare le sanzioni) per sfiancare e isolare la Russia. Ma al di là di vuote raccomandazioni non si è mai andato. Non avevano fatto i conti, gli americani, sul momento politico mondiale – ovvero il rampantismo nazionalista.
Il nazionalismo rampante, che in Europa è rappresentato dalle destre più aggressive, ha nel mondo la forma del “multilateralismo”: nazionalista ultrà è l'India di Modi, nazionalista ultrà è la Cina di Xi, nazionalista ultrà è la Russia di Putin – tutti regimi assolutisti e ben stabili e che difficilmente prevedono un cambio di passo in tempi brevi. Il nazionalismo rampante – l'orgoglio cinese, russo, indiano, a volte declinato anche in forma religiosa: induista, ortodossa o musulmana per altri – è anzi il “collante” della loro stabilità interna. Per tutti costoro l'Ucraina è un pretesto, il bersaglio grosso è l'America. Non avevano fatto i conti, gli Stati uniti, con il nazionalismo rampante nel mondo – la cui forma politica è l'antioccidentalismo, la cui forma più precipua è l'antiamericanismo.
Ma questa non è la “resa dei conti” dei popoli oppressi e colonizzati contro il lungo dominio dell'impero americano: l'antioccidentalismo è oggi un sentimento retrivo e reazionario, virato com'è, da un lato, in un fondamentalismo religioso che assume la forma del dominio assoluto sui corpi e sulle menti, e, dall'altro, in un mistero di oscurità, dove regnano intrighi e complotti. L'antioccidentalismo oggi è un pensiero banale: ormai basta dire due slogan triti e ritriti contro il “pensiero unico”, che nessuno poi sa bene cosa voglia dire, oppure contro il “neoliberismo”, che assume la funzione che aveva un tempo Satana nelle prediche dei parroci di campagna, e di conseguenza a costoro sembra già di aver tutto chiaro: “l'occidente” nella narrazione del fondamentalismo e delle destre reazionarie è troppo tollerante, troppo libero, troppo femminilizzato, troppo paritario, troppo laico, troppo mulatto, troppo debosciato. Et voilà. Sentimenti poveri proprio nel loro assolutismo totalizzante – dove ciò che è caduco (lo Stato, il governo, le forme dell'economia) diventa “tratto antropologico” di un popolo, la storia che si fa etnia: l'America è il capitalismo, il regno del Male. Non ci sono conflitti, non ci sono lotte, non ci sono movimenti sociali, non ci sono differenze politiche: è “tutta una cosa”. Che, per fare un esempio attuale, l'UAW sia scesa in sciopero colpendo contemporaneamente Ford, General Motors, e pure Stellantis (cioè la FIAT), e che i lavoratori intellettuali della “gig economy” si siano organizzati in “gilde”, cioè in una delle forme antiche di organizzazione dei lavoratori e stiano lottando contro le grandi compagnie dell'intrattenimento, ai “campisti” non importa proprio. L'America è il “grande Satana”, come amava dire la pessim'anima di Ruollah Khomeini. Di converso, tutto ciò che non è America o è contro l'America ha i tratti del “buono”: magari sono tagliagole, ma sono i “nostri” tagliagole. È il campismo, e non si scappa.
La situazione sul campo è complessa: i russi, nel ripiegare su una strategia rigorosamente difensiva, hanno minato tutto puntando forse non tanto a rallentare la controffensiva ucraina quanto a mutilare il suo esercito: è il “fattore umano” in una guerra che potrebbe riportarci a Verdun. C'è chi calcola in mesi l'esaurimento delle “scorte umane” degli ucraini; mentre i russi, dal punto di vista delle quantità, possono contare su numeri quasi illimitati, anche se non sono i coscritti, in una guerra in cui la tecnologia gioca un ruolo cruciale, a essere la carta decisiva, come dovettero imparare a loro spese i cinesi quando attaccarono il Viet Nam nel 1979, venendone sconfitti. E c'è chi ha messo la “scadenza” sulla controffensiva ucraina: entro dicembre – poi, l'inverno e il fango rallenterebbero comunque qualunque possibile avanzata, anche se, come già precisato, il successo dell'Ucraina non va misurato in chilometri ma nella capacità di logorare le forze di élite russe e di arrivare al mar d'Azov. Non siamo esperti militari e non siamo sul terreno: noi qui poniamo la questione politica della guerra in Ucraina. A partire dalla sua enormità – perché la guerra in Ucraina è un fatto enorme della Storia. Tutto l'armamentario politico ed intellettuale del Novecento è diventato improvvisamente obsoleto, visibilmente obsoleto davanti l'aggressione russa all'Ucraina. L'unico che sembra averne consapevolezza e che si prodiga in “ragionamenti storici” è Putin, ma curiosamente i suoi discorsi sulla Grande Madre Russia, sugli errori del bolscevismo, sul marciume delle democrazie occidentali e sulla continuità dell'impero zarista vengono qui considerati come delle ridondanze. In realtà, quel “pacchetto” di considerazioni che considera realismo – Realpolitik – andare incontro alla volontà di Putin, ingoiando il rospo dell'Ucraina, non è altro che “pensiero magico”: affidarsi alla “magia della pace” (nella versione laica; nella versione religiosa: alla “religione della pace”) sperando che funzioni. Inutile dire che questa “pace”, compresa quella desiderata dal Vaticano, ricorda assai la “pace dei cimiteri” di tacitiana memoria.
E la questione politica che pone la guerra di Ucraina è l'Europa. Un'Europa oggi debole, fragile, indecisa, spesso retriva e perciò lontana persino dai suoi stessi presupposti di fondazione. Solo la crescita di nuovi movimenti di giustizia sociale può farsi carico della costruzione di uno spazio europeo. È questa la “sfida politica” che pone la guerra di Ucraina – e per questo fin dall'inizio siamo stati a fianco di quelle rappresentanze, di quei movimenti, giovanili, femminili, sindacali, socialisti, libertari, radicali che, spesso anche contro i propri princìpi, sono andati in prima linea o nelle retrovie, non importa, a difendersi dall'aggressione russa. È questa, l'opzione politica e militante, la “terza via” tra la guerra e la pace. Trasformare la guerra nell'atto fondativo della Federazione Europea.
Lanfranco Caminiti, Chicco Galmozzi, Brunello Mantelli