L’Europa, le elezioni europee e lo spirito del tempo
Viviamo un tempo di imperi e di progetti imperiali. Un “tempo imperiale”. Il mercato globale, la globalizzazione dei mercati non hanno estinto gli imperialismi, li hanno moltiplicati. Dopo la fine della colonizzazione occidentale – di cui potremmo indicare alcune date orientative: l'Indian Independence Act del 1947, la battaglia di Dien Bien Phu del 1954, la nazionalizzazione del canale di Suez del 1956, la battaglia di Algeri, un ciclo che finisce con la rivoluzione dei garofani in Portogallo e la fuga americana da Saigon, entrambe nell'aprile 1975 – il post-colonialismo ha spalancato le porte a nazionalismi e statalismi esasperati.
A lungo si era definito imperialismo il risultato ineluttabile della concentrazione di monopoli economici (produttivi e finanziari) e l'accaparramento di risorse collocate in altri paesi, accompagnati dalla crescita della potenza militare, dal militarismo e dal bellicismo – consideravamo cioè l'imperialismo come un “passaggio”, una tendenza intrinseca del capitalismo. E quindi dei conflitti, della guerra tra capitalismi («Le capitalisme porte en lui la guerre comme la nuée porte l'orage»). Ma non è più così. O meglio: non è solo così.
Un peculiare imperialismo “a mezzo ideologia”, simboli socialisti e pianificazione di Stato, è stato il carattere della Russia per tutto il Novecento, quel suo presentarsi a un tempo a metà mondo (quello prima coloniale) come alternativa economica al capitalismo di mercato, centrandola sullo Stato, e l'avere confinato dietro una cortina mezza Europa, sotto un'unica bandiera issata sui propri carri armati. Imperialista “a mezzo religione” è oggi l'Iran che colonizza, con il fondamentalismo, il Libano, lo Yemen, Gaza e lancia un'OPA su tutto il vicino Oriente, pur non appartenendovi. Imperialista celeste “a mezzo la via della seta” e, classicamente, tramite l'esportazione di capitali è la Cina di Xi che assoggetta a sé, con il possesso del loro debito pubblico, tutti i paesi asiatici attraversati, e mette il piedino (“les pieds-jaunes”), e non solo, colonizzatore in Africa.
Sogna un impero “di ritorno o d'antan” anche la Turchia di Erdogan e il suo tentativo di giocare un ruolo nell'Asia caucasica e centrale ex-sovietica e nel Mediterraneo, fantasticando di antichi sultanati. E naturalmente imperialista è lo slogan di Trump, la reazione al “declino americano”, MAGA: Make America Great Again, il cui isolazionismo condito di disprezzo verso l'Europa – atteggiamento non nuovo tra gli ultraconservatori americani – non è portatore di pace universale ma avvicina la deflagrazione dell'apocalisse con la Cina. Non per tutti questi imperialismi vale solo la critica dell'economia politica, lo sviluppo e la socializzazione della produzione e la concentrazione finanziaria: il combinato disposto non è più solo capitalismo e imperialismo. E la religione vi gioca un ruolo fondamentale, come strumento atto a coniugare ordine sociale all'interno e spinta espansionistica.
Viviamo cioè un tempo di “voglia di imperialismo”, di imperialismo plurale, multilaterale, di imperialismo globale. Di multilateralismo imperiale. A guardare indietro, non è certo la prima volta che accade. La storia non finisce, spesso ricomincia.
Ciò che unisce le “strane coppie” di questo multiverso imperiale – i mullah di Teheran e Orbán, l'AfD tedesca e Trump, Erdogan e Xi, Putin e i Fratelli musulmani, coppie che potrebbero essere ricombinate come si vuole e che a volte contengono opposizioni interne, ciò che è possibile rintracciare di “unitario” nei loro regimi o nei loro proclami – è la guerra al liberalismo.
Il liberalismo – e non il liberismo o neoliberismo, inteso come “modo di produzione e riproduzione del capitale” – è il loro nemico: il liberalismo è la causa dei mali del mondo, che non sono lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, ma le migrazioni, la degenerazione dei costumi, le rogne dell'ambientalismo, la femminilizzazione delle società. Ciò che tiene assieme, cioè, fondamentalismi religiosi e pulsioni autoritarie intrinsecamente fasciste è un ritorno all'ordine, alla gerarchizzazione sociale, allo “spiritualismo” contro una società corrotta, senza valori, materialista – e che questo accada con la polizia morale dei guardiani della rivoluzione iraniana o gli OMON della polizia russa che reprimono duramente ogni manifestazione di dissenso è un dettaglio della storia. Ciò che tiene assieme regimi così diversi è il rovesciamento della divisione dei poteri – legislativo, giudiziario, esecutivo: il potere è “uno”, indivisibile, che si esprima per ukase o sharia è un altro dettaglio della storia. Quando proprio si è perduti, come nel caso di Trump alle elezioni del 2020, si passa direttamente al tentativo di rovesciamento delle istituzioni, al 6 gennaio di Capitol Hill; o come l'8 gennaio a Brasilia con Bolsonaro.
Dal confronto-conflitto tra istanze socialiste e spiriti animali capitalisti che ha attraversato il Novecento – è uscito vincente il capitalismo, prima dentro i paesi dell'Occidente (con Reagan e la Thatcher) e poi, con il fallimento del tentativo di Gorbacev e l'implosione dell'URSS, che ha trascinato nella pattumiera della storia il “socialismo reale”, sul piano globale. La deregolamentazione dei mercati – a iniziare dal mercato del lavoro e delle sue norme: il rapporto salariale di fabbrica veniva progressivamente frammentato – che si avviò in parallelo alla globalizzazione economica e allo sviluppo della finanziarizzazione di ogni attività e di ogni “questione sociale” (dalla salute alla scolarizzazione, dalla casa alla pensione) ha progressivamente smantellato, reso macerie quello Stato sociale che era pure un positivo e progressivo compromesso (in Europa tra cattolicesimo popolare e socialdemocrazia) dei Trenta Gloriosi e della produzione di massa.
La caduta del muro, fragile argine alla globalizzazione economica, rappresenta plasticamente l'impeto sfrenato del capitalismo e il fallimento dello Stato-piano. Ma la globalizzazione – una globalizzazione economica ma non dei diritti, primo fra tutti quello della libertà di pensiero – per quanto sposti risorse e ricchezze e diminuisca le diseguaglianze, non è un mondo di equità e di giustizia sociale.
Mentre lo spazio post-sovietico era attraversato da una versione selvaggia e mafiosa del liberismo, gli orizzonti di sviluppo dei nuovi Paesi indipendenti svaniscono portando con sé le speranze nazionali o sociali. È qui che nasce il risentimento contro l'occidente – contro il “nemico esterno”, non contro le proprie borghesie, le proprie élite, le proprie burocrazie, le proprie caste, i propri preti: alla globalizzazione si va contrapponendo il nazionalismo, che abbia una forma politica o una forma religiosa, che sia il riavvento dello statalismo o la teocrazia, o la combinazione delle due, poco importa. E il nazionalismo è l'ammucchiarsi delle differenze di classe nel “blocco nazionale e popolare”. Le plebi del mondo si fanno nazionaliste perché questa è la “forma narrativa” del risentimento contro l'Occidente. E si fanno imperialiste perché questa è la forma del jihad o della “operazione speciale” contro l'Occidente. L'essere contro l'Occidente è il loro programma minimo, il loro punto comune, anche quando lottano tra di loro (come le differenti fazioni dell'islamismo radicale). Viviamo cioè un tempo di plebi e moltitudini imperialiste, di un imperialismo multitudinario. Di imperialismo sociale. Il “nuovo internazionalismo” non è: “proletari del mondo uniti contro il capitale”, ma: “plebi del mondo uniti contro l'Occidente”. C'è già un nuovo Comintern, l'alleanza anti-globalista: è il BRICS ((Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, ndr).
Per tutto il Novecento, la sinistra ha rappresentato sindacalmente e politicamente le istanze del movimento operaio contro il capitalismo industriale e i suoi governi. Ha rappresentato l'idea del riscatto, della liberazione dallo sfruttamento e dal lavoro salariato. Ma il conflitto lavoro/capitale non si dà più nella sua forma “industriale” e di massa – è cambiata la composizione del capitale, è cambiata la composizione del lavoro; sono cambiate le forme di estrazione di plusvalore dal valore-lavoro. E, soprattutto, c'è stata una pesante “sconfitta ideologica”. “Arricchitevi” è stato lo slogan vincente di Reagan, ma anche quello di Deng Xiao Ping (per ironia della storia era anche l'invito che Bucharin rivolgeva ai contadini kulaki).
Ogni proponimento di rifondazione della sinistra, di rinnovamento della sinistra, di nuova sinistra, di ritorno alla sinistra – sembra sempre aggrapparsi a uno spettro del passato, un bianco lenzuolo vuoto che non fa più paura. La sinistra riformista ne prende atto e si avvia al liberismo; la sinistra radicale accoglie invece in pieno “la lotta alla globalizzazione”, difende il proprio “proletariato nazionale” a petto dell'immigrazione come dumping sui salari (una sorta di ritorno del malthusianesimo), minimizza l'importanza dei diritti come vacue forme di libertà individuale che minano il “corpo collettivo”, sogna la reinstaurazione di un ciclo industriale, e ammira il ristabilirsi di uno Stato-padre che a tutto provvede, dalla culla alla tomba, guarda al BRICS come faro dell'umanità: la sinistra radicale si fa, insomma, nazionalista, protezionista e rosso-bruna (“plebi del mondo uniti contro l'occidente”) e non può essere altrimenti. Il “risentimento contro l'Occidente”, all'interno dell'Occidente medesimo, si alimenta da una sorta di “stallo” intervenuto e che lo ha reso impermeabile alle grandi istanze di trasformazione in senso progressista. L'Occidente in passato era contraddistinto da dinamismo, risultato della pressione, della critica pratica dei grandi movimenti di trasformazione e liberazione; movimenti che portavano una sorta di riformismo radicale che riusciva a imporre importanti obiettivi. Oggi prevale una specie di visione palingenetica che sfocia nella rinuncia a qualsiasi capacità di determinare, qui e ora, significative conquiste e avanzamenti. Emblematica è proprio la questione dell'Europa, che non viene assunta come ipotesi di trasformazione ma rigettata in toto.
A giugno si terranno le elezioni europee. È un anno di elezioni importanti, il 2024 – a novembre ci saranno quelle americane e solo un alto tasso di antiamericanismo cretino può non capire la differenza per l'Occidente, per il mondo tra una vittoria di Biden o di Trump; e diciamo subito: voteremmo Biden per fermare Trump; ci fosse un altro candidato dem in grado di fermare Trump, lo voteremmo; se i dem cambiassero in corsa il candidato e presentassero Kamala Harris, voteremmo Kamala Harris. Prima fermare l'onda, poi riprendere il discorso. Lo sguardo non è sulle virtù del candidato dem – ma sul pericolo fascista e imperialista rappresentato da Trump e sul suo appeasement “pacifista” con Putin e la guerra d'Ucraina, sul suo disprezzo per l'Europa. E per dire dell'Europa: tutti i sondaggi per le europee danno al momento una crescita delle destre in Germania, francia, Italia, Olanda e, anche se meno, in Spagna e Portogallo; contemporaneamente prefigurano una perdita di consensi dei socialisti, dei popolari, dei verdi, dei liberali. Lo spirito del tempo è perciò conservatore, reazionario, quando non apertamente fascista.
Non riusciamo a capire l'indifferenza rispetto le elezioni e le istituzioni europee – quando la politica delle destre è esattamente quella di “scalare” le istituzioni e usarle in forma eversiva, ideologicamente eversiva, normativamente eversiva, rovesciando o bloccando ogni conquista sociale: le destre non sono (o non sono più – l'antieuropeismo è rimasto una “prerogativa” dei rosso-bruni) contro l'Europa, le destre vogliono l'Europa. Anzitutto, votare perciò. Per chi votare? E anche qui, è bene essere chiari: c'è un solo criterio politico in questo momento per individuare un candidato: la guerra d'Ucraina, che fa parte poi di un'unica, stessa guerra dell'«Asse della resistenza» (Iran, Hamas, Jihad palestinese islamica, Hezbollah, Houthi, milizie sciite) e dell'Alleanza anti-globalista. Al di là delle buone intenzioni di questo o quel candidato non crediamo che il pacifismo, di cui conosciamo una nobile attitudine contro tutte le guerre per una umanità in pace – in tutte le sue varianti, dalla “diplomazia” al no all'invio di armi in Ucraina, dalla “pace necessaria” alla realpolitik della spartizione dell'Ucraina sulla linea del Dnepr – possa essere annoverato tra le sue virtù politiche come candidato per l'Europa.
Il criterio per scegliere un candidato alle elezioni europee, dentro un'area progressista e democratica, liberale e libertaria, a seconda della propria circoscrizione, è perciò relativo alla sua posizione sulla guerra d'Ucraina: sostegno alla resistenza ucraina. Chi continua a non capire e a mistificare la gravità e la minacciosità dell'aggressione di Putin del 24 febbraio (e l'allargamento a est della Nato, e il golpe di Euromaidan, e il nazionalismo crescente ucraino, e gli accordi di Minsk, eccetera), chi continua a non capire e a mistificare il crescendo dell'imperialismo russo (parafrasando Jaurès: «Le tsarisme porte en lui la guerre comme la nuée porte l'orage») – non è per l'Europa. Sostenere la resistenza ucraina finché gli ucraini chiedono aiuto per sostenere se stessi: questa è oggi l'Europa.
Febbraio 2024 – a due anni dall'invasione russa
Testo di Lanfranco Caminiti, Giuseppe Cocco, Chicco Galmozzi, Brunello Mantelli, Stefania Mazzone, Elisabetta Michielin, Mimmo Sersante, Giordana Terracina, Francesca Veltri.