Il vampiro dello Stretto, capitolo 10
I suoi artigli passarono sul mio corpo lasciando delle ferite profonde almeno un dito che iniziarono a guarire prima ancora che i suoi artigli finissero l'opera. Mi trovai nella mano un lembo del suo colletto, che afferrai d'istinto in una rudimentale proiezione di judo. Lo scagliai con tutta la forza del suo attacco contro un noce, che esplose letteralmente come fosse stato colpito da una granata, con schegge ovunque e un secco rumore di poltiglia legnosa. Purtroppo non potei godere del successo perché il mio avversario era già di ritorno, quasi volando sul terreno come se non avesse fatto altro che sfruttare l'albero per rimbalzarci contro. Mi colpì così forte che temetti mi staccasse la testa. Finii a terra rotolando diverse volte. Sentivo odore di terriccio ed erba strappata ovunque, in bocca, nel naso, negli occhi. Mi misi gattoni, ma non riuscii neppure a mettere a fuoco che mi sentii colpire di lato e la testa mi si schiantò di nuovo a terra, affondando il naso nel terreno. Mi resi conto solo in quel momento che era più cedevole di quanto avessi creduto; mi sembrò una considerazione importante, quasi fondamentale. Poi mi sentii tirare per una caviglia e infilai d'istinto gli artigli a terra, invano. Un attimo dopo stavo roteando a mezzo metro da terra, ricordo bene l'erba correre sotto di me, la sensazione di terriccio umido sotto gli artigli, poi l'impatto. Il ginocchio destro contro qualcosa di duro, forse pietra. Sentii le gambe cedere rompendosi e il rimbalzo mi lanciò su in aria, un istante di pausa in tutta quell'azione che sembrò dilatarsi a lungo, aumentando la mia percezione di quel momento. Avvertii la sua presenza dietro di me e mi avvitai su me stesso per evitare l'attacco. Mi sfrecciò accanto mancandomi di un niente e dandomi il tempo di cadere a terra sulle gambe che mi aveva ridotto a pezzi. Ancora non sapevo che potevo subire fratture, né che ci voleva più tempo del solito perché si saldassero, tanto che caddi nel panico. L'istinto di sopravvivenza però mi portò a reagire, feci forza su quella che mi sembrò combinata meglio e caracollai verso un albero lì vicino, aiutandomi anche con le braccia. Non ero più in grado di spiccare balzi e così cercai, alla disperata, di darmi slancio con le braccia: funzionò meglio del previsto, ma lui era già dietro di me. Mi aggrappai ad un ramo che frenò il mio slancio. Rimasi per un secondo appeso come una pera in balìa di un vento forte, poi lo lasciai andare e colpì il mio avversario in pieno. Si era lanciato contro di me a tutta forza così non poté evitarlo, ma sapevo che se non sfruttavo al massimo quel momento non avrei avuto altre possibilità contro quel mostro. Toccai terra con l'unica gamba che me lo consentiva e mi lanciai contro di lui, trapassandolo con tutto il braccio. Cercai di fare più danno possibile scavando dentro di lui, ma mi costrinse ad imparare, quella notte, che non è mai saggio restare vicino ad un vampiro, neppure quando lo si sta smembrando. Difatti fece a me quello che avevo fatto a lui, solo che ne approfittò per inchiodarmi all'albero, in più. Non capii quanto era grave finché non cominciò a colpirmi con l'altra mano. Colpi così potenti e rapidi come non avevo mai subiti prima: caddero su di me come grandine, gli artigli tagliarono, affondarono, lacerarono.
Tornò il panico, di un tipo che non avevo più provato, quello stesso panico che va a toccare quelle corde animali che restano nel corpo di ognuno di noi, sepolte sotto tonnellate di pensiero, razionalità e false convinzioni, talmente sottili e silenziose da convincerti che non ce le hai più. Ma sono sempre pronte a coglierti di sorpresa, quando il medico ti dice che ti restano tre mesi di vita, ancora tese e taglienti come lame di rasoio. Ogni colpo che ricevevo distruggeva la mia mente prima del corpo, togliendomi tutte le promesse d'invincibilità e invulnerabilità che avevo fatto a me stesso, scoprendo un bambino piangente e ubriaco al riparo di un freddo portone, mentre tre bulli si prendono gioco di lui. (continua il 25 giugno)