13 marzo 1861, la Real Cittadella di Messina si arrende ai piemontesi
“Uffiziali, Sottouffiziali e Soldati, è questo l'ultimo ordine che io vi rivolgo, e la mano mi trema nel vergarlo. Allorché presi il comando di questa fortezza e di voi tutti, sacro giurammo di difendere fino agli estremi questo interessante sito fortificato che la Maestà del Re aveva affidato al nostro onore e alla nostra fedeltà. Avete ben veduto che tutti abbiamo mantenuto il giuramento, serbando fedeltà, attaccamento e devozione al nostro amatissimo sovrano Francesco II. Immensi sono stati gli sforzi che per lo spazio di cinque giorni si son fatti colle nostre artiglierie per distruggere i lavori di attacco che il nemico costruiva sulle alture della città di Messina ed in altri siti ancora, ma poco effetto ha provocato il nostro fuoco, sí perché quasi tutti i lavori erano al di là della portata delle nostre artiglierie, sí perché altri trovavansi mascherati da casamenti ed oggetti occasionali”.
Inizia così il documento d'addio che il generale Fergola, comandante della Real Cittadella, scrisse alle sue truppe la sera del 12 marzo 1861. Dopo cinque giorni di combattimento serrato, il giorno dopo l'ultimo bastione della difesa borbonica in Sicilia si arrese alle truppe piemontesi (di stanza a Messina dall'anno precedente) comandate dal generale Cialdini. Gli oltre 4.000 uomini che avevano partecipato alla difesa, e che poi furono compensati con una medaglia coniata per loro e donata da Francesco II di Borbone, furono rinchiusi nelle fortezze di Milazzo, Reggio Calabria e Scilla. Gli ufficiali furono imprigionati e processati con l'accusa di avere incitato alla resistenza, anche se successivamente furono prosciolti da qualunque addebito.
Una vicenda, quella dell'assedio e della resa della Real Cittadella, che inizia il 27 luglio 1860 quando oltre 2.500 garibaldini guidati tra gli altri anche da Nicola Fabrizi, entrarono in città. Contravvenendo agli ordini del ministro della Guerra del Regno delle Due Sicilie Pianell (che come molti alti ufficiali diede prova di notevole coerenza passando sotto le insegne dei Savoia), il generale Clery mandò 11.000 uomini in Calabria e si asserragliò con 4.000 nella Cittadella per tentare un'ultima disperata resistenza.
“Il 21 luglio -scrisse Clery- un ordine formale del ministro Pianell m'ingiungeva di ritirare le mie truppe in Calabria e di cedere armati i due forti di Castellaccio e Gonzaga a Garibaldi. Non bastando ciò, io dovevo cedere a questo capo (sempre Garibaldi, ndr) Siracusa, Augusta e la stessa cittadella di Messina, attendendosi diceva l'ordine del ministro, che a questo prezzo le potenze dell'Europa consentissero a garantirci la pace nel continente. Sugli ordini reiterati del ministro Pianell io consentii di entrare in rapporti con il signor Garibaldi, e per conseguenza con il maggior generale Medici, al fine di convenire con loro il modo d'evacuazione della città di Messina dalle truppe reali.
La storia renderà, io spero, un conto esatto della condotta del ministro Pianell in tutti i suoi affari disastrosi, essa dirà come egli ha impedito che noi soccorressimo Milazzo, come per i suoi ordini io fui costantemente forzato a rinunciare a tutti i piani di aggressione, per tenermi in ontosa e letargica aspettativa. Come e per quali combinazioni perfide, mi fa mancare tutte le risorse di cui un generale ha bisogno in faccia al nemico che egli deve combattere, quella era la volontà del ministro, e ciò che lo prova, è che egli aveva incaricato il colonnello di stato maggiore Anzani di capitolare con Garibaldi e di comprendere in questa capitolazione le truppe che il generale Clary aveva sotto i suoi ordini”.
Il rifiuto di cedere anche la Real Cittadella costò a Clery il comando e il richiamo a napoli. Una volta partito, il comando passò al generale Fergola fino alla caduta di Gaeta a metà febbraio del 1861. Fergola e i suoi uomini resistettero per oltre un mese, ma alla fine furono costretti a capitolare. Così il generale Fergola, che morì alcun anni dopo, ricordava la difesa e la resa.
“Quindi l'inimico profittando di tali suoi vantaggi à compiuto inosservato la maggior parte dei suoi lavori. Poco dopo il mezzo giorno di oggi (12 marzo 1861, ndr) e precisamente quando estenuati di forze prendevate un po' di ristoro, ha aperto simultaneamente un fuoco formidabile contro questa Real Cittadella, che l'ha ridotta in poche ore nello stato in cui si ravvisa, ad onta di quella resistenza che si è potuta fare colle nostre artiglierie di una portata molto inferiore a quella delle sue. Veduto dunque che inutile si rendeva qualunque altro nostro mezzo di difesa, e che eravamo a causa dello incendio sviluppatosi minacciati da una sicura esplosione della gran polveriera Norimbergh e suo magazzino attiguo anche pieno di polvere, se non vi si apportava un pronto rimedio, è chiesta per ben due volte per mezzo di parlamentari una tregua al nemico per la durata di 24 ore.
Ma vedendo egli di quanto aveva col suo fuoco prodotto di danno e della trista posizione in cui eravamo, ha rigettato la mia domanda, e mi ha fatto sentire che dovevamo arrenderci a discrezione, e che se a tanto non divenivamo e non gli si dava risposta decisiva per le ore 9 della sera, avrebbe riaperto il fuoco con l'aggiunta di altre batterie che ancora non erano punto a vista della fortezza. In tale stato di cose, riunito il consiglio di difesa e sentitone anche il parere, è stato forza sottoporci a quanto il nemico imponeva. Quindi mio malgrado e vostro, domani la Piazza sarà resa.
Così non avrei giammai ceduto, ma gli incendi che seco noi minacciavano 1000 e piú tra donne e fanciulli mal ricoverati, e che vi si appartengono, e la nostra eccezionale posizione, perché le potenze europee han permesso una aggressione non mai letta nelle istorie, e noi da chicchessia sperar non potevamo soccorso di sorte, mi hanno obbligato a cedere. Cediamo alla forza perché sopraffatti dalla superiorità dei mezzi e non dal valore dei vincitori. Certo che la nostra resistenza non avrebbe salvata la Monarchia, sagrificata con la resa di Gaeta; non ci restava che salvar solo l'onore militare e nazionale: e mi lusingo che lo stesso nemico ci farà giustizia di concedercene l'orgoglio, come spero che voi me la farete: nel convenire d'aver visto con voi fino all'ultimo i disagi, le privazioni, ed i pericoli.
Un dovere però mi resta a compiere ed è quello di esternare a voi tutti i miei sentiti e distinti ringraziamenti per aver saputo ognuno così bene secondare le mie vedute nel difendere questa Real Cittadella, ove rinchiusi per circa 8 mesi abbiamo dato le più grandi prove di abnegazione e di fedeltà al nostro Augusto Sovrano Francesco II. Se l'abbiano particolarmente però i signori generali De Martino, Combianchi ed Anguissola, Ten. Col. Recco, capitani Lamonica, Di Gennaro e Lauria; e fra tutti il mio capo di stato maggiore ed Uffiziali dello stesso signor Ten. Col. Guillamat, Capitano Cavalieri e Subalterni Gaeta e Brath. Io vi ringrazio tutti di cuore, poiché tutti avete gareggiato nella difesa della rocca.
Accettate tutti vi prego tali miei ringraziamenti che partono da un cuore leale e riconoscente. Miei bravi compagni d'armi, nella mia lunga carriera militare di 47 anni ho veduto diverse peripezie non dissimili alla presente, ma però la provvidenza o presto o tardi ha fatto sempre rilucere la sua giustizia quando meno si attendeva, per cui non ci perdiamo d'animo, e confidando in essa auguriamoci giorni più felici, i quali compenseranno i tristi e dolorosi che abbiamo sofferti. Mi avevo prefisso di porre ai piedi del Real Trono le mie umili suppliche per chiedere alla munificenza Sovrana un compenso speciale al vostro attaccamento, alla vostra sperimentata fedeltà, ma la sorte avversa delle armi me lo ha impedito e con dolore mi divido da voi tutti, ma porterò scolpito profondamente nell'anima mia la rimembranza di voi, della vostra fede.
Della vostra lealtà, del vostro militare coraggio. Non so quale sarà il mio destino ed il vostro in avvenire, ma se la mia età mi permetterà in seguito potervi rivedere, sarà sempre una vera gioia per me poter stringere la mano a qualcuno dei difensori di questa Real Fortezza, ai quali né le minacce, né i pericoli, né le lusinghe, né i pravi esempi, né men la morte seppe far declinare da quella via d'onore che solo è sprone e ricompensa al prode che pel suo Re combatte per vincere o morire. Addio miei bravi camerati! Addio! La sventura ci divide, fede e lealtà fu la nostra divisa, e questa non si spogli giammai da noi, ciascuno di voi porti scolpita in core la nobile parola, che l'univa con nodo indissolubile al nostro sventurato, ma eroico sovrano”.