Triscele, l’azienda non versa la cessione del quinto

ProtestaTriscele24 10 2012
La protesta dei lavoratori della Triscele davanti allo stabilimento

L'ultimo incontro in Prefettura ha scongiurato il licenziamento imminente e dato il via ad un possibile rinnovo della cassa integrazione in deroga per altri sei mesi. I lavoratori della Triscele in presidio permanente davanti agli stabilimenti, ormai inattivi da un anno e mezzo, vedono qualche speranza ma non cantano vittoria.

I rapporti con la proprietà sono sempre più tesi e la recente scoperta che chi ha firmato la cessione del quinto è nei guai fino al collo perché pare che l'azienda non abbia versato quanto dovuto alle finanziarie, pur avendo prelevato la quota dallo stipendio, non aiuta a far scemare la tensione.

La loro rabbia è ancora più evidente per la serie di debiti che ha improvvisamente reso la loro vita impossibile.“Ormai non c'è più un rapporto di fiducia con la proprietà -tuona Nicola M. Io lavoravo in questo stabilimento da quando avevo 18 anni, oggi ne ho 48. Ho tre figli, mia moglie non lavora, il mutuo da pagare. Senza contare che avevo fatto la cessione del quinto e davvero non le so dire quante e quante rate hanno lasciato insolute pur trattenendosi la quota dal mio stipendio”.

“Ho ricevuto la notifica che non sono state pagate le rate della cessione del quinto per un ammontare di 8 mila euro -dice Giovanni L. confermando le parole del suo collega. Non solo i Faranda si sono presi il TFR che abbiamo ceduto pur di far ripartire l'azienda nel 2007 quando l'hanno ricomprata dall'Heineken, ma non hanno neanche pagato ciò che dovevano. Io ho due figli e il nostro unico reddito è la mia cassa integrazione. Non sappiamo come andare avanti perché ho anche un altro prestito da restituire. Ho dovuto restringere su tutto, tagliare ogni minima spesa”

I sindacati pur coscienti del problema perché presentato ai tavoli delle trattative, non hanno i dati certi. “Sicuramente i lavoratori hanno fatto presente il problema delle rate non solute -dichiara Enzo Cocivera, segretario confederale CGIL. Il sindacato, però, non può avere contezza anche di questi casi perché si tratta di decisioni personali che riguardano l'azienda ed il singolo lavoratore e nei fatti non sappiamo quanti abbiano questo tipo di contratto”.

Intanto i 41 dipendenti della Triscele hanno sempre più paura ogni giorno che passa. E stando ai fatti, hanno ben ragione  a temere per il proprio futuro, considerato che da quando i Faranda promisero un nuovo Piano Industriale e la delocalizzazione, hanno già esaurito il contratto di solidarietà, la cassa integrazione ordinaria e la deroga della stessa, in scadenza il 31 dicembre. Insomma, la famiglia non ha sdegnato il ricorso agli ammortizzatori sociali. “La legge glielo permette -ammettono gli stessi lavoratori”. L'ulteriore deroga di sei mesi, però, non dà loro certezza che la proprietà presenti davvero il nuovo Piano Industriale, senza il quale non sarà possibile ottenere il proseguimento della CIG in deroga, anche se è quello che hanno promesso durante l'ultimo incontro in Prefettura.

“Probabilmente i Faranda non si aspettavano questa proposta -ipotizza Salvatore B. uno dei lavoratori in presidio. Forse anche loro adesso vedono la possibilità di riprendere l'attività. Dicono di essere stati in buona fede, ma è ora che ci diano un piccolo segnale, quello che non ci hanno dato nell'arco di anni, così come ha sollecitato lo stesso prefetto Trotta”.

Intanto loro sono stati sempre lì a presidiare i cancelli, anche sotto la pioggia sferzante degli ultimi giorni, per ribadire che i loro sacrifici sono stati troppi e nessuno di questi ha portato ad un risultato soddisfacente fino ad oggi. A bruciare è soprattutto l'avere dato i 2 milioni del proprio TFR, che dovevano servire per coprire i costi del nuovo piano dei Faranda, ancora inesistente. A denti stretti, tanti altri sono gli avvenimenti degli ultimi anni a non convincerli. Come la ristrutturazione degli uffici proprio durante il periodo di fermo della produzione, l'acquisto di macchinari mai utilizzati e la produzione di birre mai introdotte sul mercato.

Nello stabilimento, a quanto confermano molti di loro, ci sono 50 casse di birra analcolica “Mata e Grifone”, mai consegnata ai negozi e ormai scaduta. Alcuni operai sono stati mandati fino a Lubiana, in Slovenia, per comprare una macchina mai messa in moto. La lista degli acquisti è lunga e annovera macchinari, filtri, ristrutturazioni, l'apertura di un punto vendita al dettaglio all'interno della struttura, ovviamente mai aperto, il tutto per un costo di parecchie migliaia di euro.

Tutte voci che corrono tra i lavoratori, che pensano che la famiglia abbia ripreso lo stabilimento alla fine del 2007 già con l'intenzione di ottenere il cambio di destinazione d'uso dell'area per poi realizzare una grossa speculazione edilizia come hanno fatti i Puglisi con i confinanti Molini Gazzi. Che sia stata mala fede (non in pochi sostengono questa teoria) o cattiva gestione economica, è un quesito irrisolto. Si attende la pronuncia del Cru rispetto alla vicenda, ma i lavoratori non dimenticano che durante una delle ultime riunioni in Prefettura i tecnici mandati dalla proprietà hanno dichiarato che ci sono parecchi debiti e che una volta venduta l'area prima si salderanno i conti in rosso e poi si vedrà. L'avere accettato l'ipotesi del prolungamento della cassa integrazione in deroga dà qualche speranza, ma i lavoratori ormai non si fidano più.

“I rapporti con la proprietà si sono decisamente incrinati -dice categorico Salvatore B. Il padre (dei fratelli Faranda, ndr) è stato un bravo imprenditore e un bravo padre di famiglia. Loro no, che ci abbiano preso in giro o meno”.

Anche volendo credere nelle buone intenzioni dell'azienda, i lavoratori vivono un periodo di grave crisi e nella maggior parte dei casi non arrivano a fine mese.

“Prima stavamo bene, potevamo definirci classe media -continua Salvatore B. Adesso non riusciamo a tirare avanti. Mia moglie non lavora. Abbiamo due figli, uno va ancora a scuola, l'altra ha dovuto rinunciare all'università per cercare lavoro. Io ho 60 anni, chi mi prende alla mia età? Non vogliamo essere usati e buttati via”.

L'aver ceduto il TFR per salvare l'azienda brucia e non poco, Intanto gli sforzi per andare avanti sono enormi. Santino P. racconta con amarezza: “Pensi che deve lavorare mia moglie per mantenerci entrambi. Assiste gli anziani la notte. Quest'uomo ci ha veramente legnati”. E il suo collega Antonio C. non potrebbe essere di umore diverso. “Ma le pare normale che a 54 anni devo ancora andare a chiedere soldi in giro? Mi aiuta mia suocera, altrimenti non saprei come mantenere i miei due figli”.

La speranza è che davvero si realizzino le promesse non mantenute e che finalmente possa riprendere l'attività di produzione. “ Siamo manodopera specializzata, sappiamo fare solo questo -conclude Nicola M. Se proprio devono abbandonarci, speriamo che ci siano altri imprenditori disposti a investire. In fondo, non avrebbero bisogno di spendere per la nostra formazione. Abbiamo esperienza e sappiamo fare il nostro lavoro”.

La proprietà è stata contattata telefonicamente per un riscontro delle dichiarazioni ricevute. Uno dei dirigenti, Cosimo Falliti, ha preferito non rilasciare dichiarazioni in merito, mentre nessuna risposta ci è arrivata dall'amministratore delegato della Triscele Francesco Faranda.

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Francesca Duca

Ventinovenne, aspirante giornalista, docente, speaker radiofonica. Dopo una breve parentesi a Chicago, torna a preferire le acque blu dello Stretto a quelle del lago Michigan. In redazione si è aggiudicata il titolo di "Nostra signora degli ultimi" per interviste e approfondimenti su tematiche sociali che riguardano anziani, immigrati, diritti civili e dell'infanzia.Ultimamente si è cimentata in analisi politiche sulle vicende che animano i corridoi di Palazzo Zanca.

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